Carlo Carrà, Giustiniano dà nuove leggi e libera uno schiavo (1938)
Il grande (490 x 480 cm) affresco intitolato Giustiniano dà nuove leggi e libera uno schiavo (1938) fu ideato e dipinto da Carlo Carrà su una parete dell’Aula C della Corte d’Appello Civile, al terzo piano del piacentiniano Palazzo di Giustizia. Al centro della scena, in posizione predominante, l’imperatore Giustiniano era raffigurato assiso, seminudo, con un piede poggiante sul globo terrestre e un rotolo di leggi nella mano sinistra. La mano destra, alzata, accennava alla liberazione dello schiavo di fronte a lui, a terra. Ai due lati, figure di uomini, donne e bambini, assistevano ed esultavano increduli. La scena fu inquadrata in una quinta architettonica, da cui era possibile intravedere un paesaggio montuoso e alberato sullo sfondo. L’intervento di Carrà presso Palazzo di Giustizia non si esaurì al solo episodio di Giustiniano: egli eseguì anche l’affresco dedicato al tema del Giudizio Universale (1938-1939) nell’Aula A della Sezione Civile, al terzo piano del palazzo. A causa della presenza di nudi, considerati sconvenienti, nel 1940 entrambi i lavori di Carrà vennero censurati con un pesante drappo, rimosso solo nel 1942. Alcuni disegni preparatori relativi al Giustiniano e al Giudizio (Due figure: uomo e donna; Figura semisdraiata appoggiata sul gomito; Figura femminile che esce dalla tomba, 1938-1939) fanno oggi parte delle collezioni del Museo del Novecento di Milano.
La sacralizzazione delle politiche totalitarie dell’Uomo nuovo attraverso le arti
La fabbricazione della realtà dell’Uomo nuovo tramite la creazione di mitologie nazionali
Il monumentalismo, ovvero la visualizzazione di soggettività e oggettività
Quando il cantiere del milanese Palazzo di Giustizia non era ancora terminato, l’architetto Piacentini incaricò circa cinquanta artisti dell’impianto decorativo dell’edificio, per un totale di 140 opere. Il programma iconografico, sviluppato attorno al tema della giustizia, fu condotto ad affresco, mosaico o ad alto/bassorilievo. Tra i professionisti all’opera vi erano alcuni dei protagonisti del tempo della levatura di Mario Sironi (La Giustizia tra la legge e la forza, 1939), Arturo Martini (Giustizia fascista, 1936-1937) e Carlo Carrà. In accordo con la committenza – il Comune di Milano, che finanziò i lavori, e lo Stato fascista –, Piacentini e gli artisti collaborarono per portare a termine un lavoro che doveva intenzionalmente essere letto come il capitolo di un libro, scritto e compilato dal PNF. La voce apparentemente corale dei professionisti in loco era in realtà la voce di uno solo: quella del governo.
La Giustizia, in rappresentanza dello Stato del Ventennio, fu interpretata nei suoi più disparati aspetti, da quello sacro a quello profano, dall’antichità al presente, e ne incarnò i valori. All’interno di un edificio monumentale e severo, ecco dunque succedersi una serie di rappresentazioni che dovevano mostrarsi agli occhi del pubblico come exempla da seguire, oppure punizioni esemplari da ricordare. Tale binomio, bilanciato tra ‘concessioni e restrizioni’ – perché la Giustizia dà e la Giustizia toglie –, venne chiaramente incarnato dalle due opere compiute da Carrà per Palazzo di Giustizia: Giustiniano dà nuove leggi e libera uno schiavo (1938) e il Giudizio Universale (1938-1939).
Nel primo caso, Giustiniano non era solo il soggetto principale dell’affresco, ma assurgeva a vero e proprio simbolo, in quanto raffigurazione antropomorfa della Giustizia stessa. L’imperatore bizantino (527-565), proprio grazie alle riforme che aveva introdotto nella società del tempo, si era infatti guadagnato una fama imperitura. Una delle più celebri, la raccolta di leggi conosciuta come Corpus Iuris Civilis, alla base del diritto romano, aveva introdotto un certo favor libertatis, concedendo maggiori possibilità di liberare uno schiavo. Fu proprio questo concetto che Carrà tentò di cristallizzare nella sua composizione, dipingendo un precedente storico illustre per il governo del presente, che si occupava di tali questioni.
I rimandi, tuttavia, non si esauriscono qui. L’organizzazione complessiva della scena rievocava infatti altre immagini iconiche, tratte dalle Sacre Scritture: mentre la figura dell’imperatore con le leggi era un chiaro riferimento all’episodio di Mosè con le Tavole della Legge, il globo sotto al suo piede rimandava senz’altro al Cristo assiso – e in particolare ai mosaici ravennati di San Vitale raffiguranti Cristo in globo con angeli di epoca giustinianea (546-547). Inoltre, nel complesso, il Giustiniano di Carrà ripercorreva la struttura compositiva dell’affresco di Beato Angelico, San Lorenzo distribuisce l’elemosina ai poveri (1447-1448), all’interno della Cappella Nicolina del Vaticano. La connessione che vincolava i legislatori del passato, tra religione e storia, e quelli del presente doveva apparire piuttosto evidente anche agli spettatori che frequentavano allora il Palazzo. Soprattutto se si considera che tali contenuti erano veicolati attraverso uno stile volutamente scarno, essenziale, di chiara matrice primitivista, e quindi decisamente diretto.
Fagone, Vittorio (a cura di). 1996. Carlo Carrà. La matita e il pennello. Milano: Skira.
Melluso, Marco. 2000. La schiavitù nell’età giustinianea. Disciplina giuridica e rilevanza sociale. Parigi: Presses Universitaires Franc-Comtoises.
Museo del Novecento. La collezione. Milano: Electa (2010): 163-164.
Negri, Antonello, Bignami, Silvia, Rusconi, Paolo, Zanchetti, Giorgio, e Susanna Ragionieri (a cura di). 2012. Anni ’30. Arti in Italia oltre il fascismo. Firenze: Giunti Editore.
Silvia Colombo