Carlo Carrà, Giudizio Universale (1938-1939)
Secondo e ultimo lavoro di Carlo Carrà presso il [Palazzo di Giustizia di Milano](/essay/405], il Giudizio Universale è un affresco databile tra il 1938 e il 1939, collocato nell’Aula A della Sezione civile, al terzo piano dell’edificio piacentiniano. All’interno di una campitura quasi quadrata (490 x 480 cm), l’artista realizzò una composizione incentrata attorno alla figura di Cristo giudicante: un uomo seminudo, avvolto da un panneggio, rivolgeva il braccio destro verso l’alto e quello sinistro verso il basso, sul capo di una donna inginocchiata ai suoi piedi. Tutt’attorno, figure di beati e di dannati emergevano dalla terra, in attesa di essere giudicati, sullo sfondo di una semplice ambientazione naturalistica – un picco montuoso contro un cielo azzurro. Presso Palazzo di Giustizia Carrà eseguì anche l’affresco Giustiniano dà nuove leggi e libera uno schiavo (1938), nell’Aula C dello stesso piano. A causa della presenza di nudi, nel 1940 entrambe le opere furono giudicate sconvenienti e per questo coperte da un drappo, rimosso solamente due anni dopo. Il Museo del Novecento di Milano attualmente conserva alcuni disegni preparatori di questa campagna decorativa, relativi sia al Giudizio (Figura femminile che esce dalla tomba; Figura semisdraiata appoggiata sul gomito) sia al Giustiniano (Due figure: uomo e donna), datati 1938-1939.
La sacralizzazione delle politiche totalitarie dell’Uomo nuovo attraverso le arti
La fabbricazione della realtà dell’Uomo nuovo tramite la creazione di mitologie nazionali
Il monumentalismo, ovvero la visualizzazione di soggettività e oggettività
Se nel Giustiniano dà nuove leggi e libera uno schiavo il rimando alle Sacre Scritture e alla religione cristiana era solo un’eco, un riferimento implicito all’interno dell’opera, con il Giudizio Universale Carrà si cimentava a tutto tondo con la tradizione. Episodio del programma decorativo del milanese Palazzo di Giustizia, l’affresco che ritrae il Giudizio fece parte di quel cantiere architettonico e artistico che intendeva accordare le arti in un unico messaggio armonico. L’intento era quello di riportare in vita i grandi cantieri decorativi – come quelli dei gloriosi secoli passati, in cui l’Italia si distinse per qualità e fama – per educare le folle al messaggio fascista. Proprio come Enrico Scrovegni, usuraio che si fece ritrarre da Giotto nell’omonima cappella (1303-1305) per redimere i suoi peccati e parlare del suo pentimento alla contemporanea società padovana, il Cristo raffigurato da Carrà doveva rappresentare un sistema di giudizio insindacabile.
Guardando l’affresco, il pubblico doveva ricordarsi il motivo per cui era necessario compiere (o astenersi dal compiere) determinate azioni. In un modo o nell’altro, infatti, sarebbe andato incontro al responso di qualcuno che, con una bilancia in mano, avrebbe pesato le sue azioni, valutandone le conseguenze. Il lavoro di Carrà diveniva così un’opera sincretica, che tentava di unire e sovrapporre due sistemi di giudizio afferenti a mondi diversi: quello legale e quello morale. Questo era un aspetto costante della cultura propagandistica promossa dal regime, che per parlare al popolo doveva servirsi della politica, ma anche di un linguaggio che potesse toccare tutti, come quello della cristianità. L’opera diventava una sorta di memento mori davanti alle aule di un tribunale, poiché ricordava a ciascuno che le azioni compiute sarebbero state soppesate e accuratamente valutate.
Tuttavia, il metro di giudizio ‘comunicato’ dal governo di matrice fascista e quello effettivamente messo in atto si trovavano su due livelli diversi. Se, da un lato, il regime voleva apparire come l’incarnazione della rettitudine, pronta a punire gli errori e a esaltare i meriti – come il Cristo di Carrà –, dall’altro agiva secondo la sua natura dittatoriale e impositiva, volta a eliminare qualsiasi dissenso. Fu però proprio grazie a riferimenti iconografici universali e a temi che attraversavano i secoli che Carrà riuscì ad attutire linee di indirizzo altrimenti troppo forti e coercitive. Anche senza l’uso di una smaccata simbologia fascista (motivo per cui l’opera non fu particolarmente apprezzata), l’artista era riuscito a comporre un episodio che trascendeva dalla sfera sacrale, per approdare alla quotidianità ‘semplice’ e lineare del presente.
Fagone, Vittorio (a cura di). 1996. Carlo Carrà. La matita e il pennello. Milano: Skira.
Museo del Novecento. La collezione. Milano: Electa (2010): 163-164.
Negri, Antonello, Bignami, Silvia, Rusconi, Paolo, Zanchetti, Giorgio, e Susanna Ragionieri (a cura di). 2012. Anni ’30. Arti in Italia oltre il fascismo. Firenze: Giunti Editore.
Silvia Colombo