Achille Funi, Malinconia (1930)


Descrizione

Appartenente alle collezioni del Museo del Novecento di Milano, Malinconia è un olio su tela (110 x 90 cm) che Achille Funi eseguì nel 1930. L’opera, acquistata in occasione della XVII Biennale di Venezia (1930), fu compiuta quando l’artista aveva ormai abbandonato gli stilemi futuristi per abbracciare i dettami figurativi del gruppo Novecento, sostenuto dalla critica d’arte Margherita Sarfatti. Tuttavia, Malinconia si allontana stilisticamente e figurativamente anche da queste ricerche, per approdare a risultati autonomi e indipendenti. La tela raffigura un nudo femminile in posa statica e con volto reclinato verso il basso, al centro di una scena dalle tinte uniformi e astratte. Essa è stata restaurata almeno una volta in tempi recenti (2001-2002).

Principi

  1. L’arte di Stato: modernità e modernizzazione

  2. I limiti del realismo: la costruzione di individualità collettive

Analisi

In virtù di una rassicurante figuratività ed evidenti richiami all’antico, Malinconia di Achille Funi (1930) rientrava di diritto nella tarda produzione di Novecento, che giungeva proprio allora quasi al capolinea. Le opere dell’artista ben interpretavano i cardini figurativi e stilistici del gruppo che il regime aveva tentato a più riprese di lanciare come esempio di ‘arte di Stato’. Attraverso lo studio dell’antico, in occasione di svariate visite ai musei archeologici di Roma e durante un viaggio a Pompei (1928), ma anche grazie a un aggiornamento artistico in senso internazionale, Funi era riuscito a trovare una propria identità creativa, che si allineava all’estetica ufficiale fascista. Creava una continuità tra passato e presente, ispirata a una monumentalità gloriosa, metteva a punto un linguaggio figurativo facile da comprendere e portava alla luce temi universali, talvolta metaforici e simbolici.

Questo sembra proprio essere il caso di Malinconia: una personificazione che ha attraversato i secoli (da Dürer, con Melancholia I del 1514 a Malinconia di Hayez, del 1840-1841) e che si risolve qui con un nudo femminile quasi integrale – fatta eccezione per un panneggio a coprire la parte inferiore del corpo – assiso, con il capo reclinato. Se la solennità della figura, anticipata solo un anno prima da opere come Rebecca al pozzo o Venere apuana (entrambe del 1929) e la terrosità della sua carnagione richiamavano esempi pittorici e statuari dal passato, i volumi compatti e semplificati riecheggiavano (così come era stato in Giochi atletici italiani del 1933) il periodo classicista di Picasso.

Inoltre, inserito all’interno di un’ambientazione astratta e non uniforme, il soggetto acquisiva una valenza universale e simbolica. Un fondale neutro di color blu notte – forse la proiezione dei pensieri e degli stati d’animo della donna, forse una materializzazione cromatica della sua tristezza (blue, in inglese) – la avvolgeva quasi completamente. Unica eccezione è un alone giallo-oro, forse un’aura sacra che contribuiva a farle perdere qualsiasi connotazione spazio-temporale. Semplice e sobria, la composizione aspirava a parlare a un pubblico di esperti e non in maniera diretta, situandosi al limite tra rappresentazione figurativa e astrazione, realismo ed espressionismo, particolare e universale.

Bibliografia

Colombo, Nicoletta (a cura di). 2009. Achille Funi. Mitologie del quotidiano. Milano: Editoriale Giorgio Mondadori.

Negri, Antonello, Bignami, Silvia, Rusconi, Paolo, Zanchetti, Giorgio, e Susanna Ragionieri(a cura di). 2012. Anni ’30. Arti in Italia oltre il fascismo. Firenze: Giunti Editore.

Silvia Colombo