Mario Sironi, Il lavoro (opera distrutta; 1933)


Descrizione

Rispondendo a uno dei temi prescelti per la V Triennale di Milano del 1933, l’affresco Il lavoro di Mario Sironi (1933) – conosciuto anche con il titolo Le opere e i giorni – fu la prima grande opera murale dell’artista. Ideata nello stesso anno del Manifesto della pittura murale, la composizione faceva parte dell’impianto decorativo del Salone delle Cerimonie di Palazzo dell’Arte, insieme ai lavori di: Achille Funi, Giochi atletici italiani; Massimo Campigli (Le madri, le contadine, le lavoratrici) e Giorgio de Chirico (La cultura italiana, 1933), tutti andati distrutti al termine della manifestazione. L’unico ancora in situ è il mosaico parietale di Gino Severini, intitolato Le Arti (1933). In un’ambientazione urbana e industriale senza tempo, Il lavoro era una scena pullulante di personaggi che, a più livelli, si dedicavano a diverse attività lavorative: chi trasportava dei carichi sulle spalle, chi era intento a tagliare un albero, ma anche chi si soffermava a chiacchierare. Almeno sino al 2015, un disegno preparatorio del Lavoro era conservato all’interno della collezione della Banca Dexia Crediop.

Principi

  1. La sacralizzazione delle politiche totalitarie dell’Uomo nuovo attraverso le arti

  2. La fabbricazione della realtà dell’Uomo nuovo tramite la creazione di mitologie nazionali

  3. Il monumentalismo, ovvero la visualizzazione di soggettività e oggettività

Analisi

Nel ruolo di membro del Direttorio – insieme a Carlo Alberto Felice, Giovanni Muzio e Gio Ponti – e coordinatore artistico della V Triennale del 1933 nel nuovo Palazzo dell’Arte di Milano Sironi ebbe modo di dedicarsi a quell’ampio progetto di sinergia estetica a cui anelava anche il regime. Mente di quella che sarebbe stata l’immagine comunicativa di un’esposizione che univa arti maggiori, minori e disegno industriale, egli diventava così rappresentante ufficiale della politica culturale del Ventennio. Ebbe, infatti, modo di occuparsi degli esterni del Palazzo (i sei archi in pietra di Vicenza e gli ingressi monumentali dell’edificio), di una parte degli allestimenti, di alcuni disegni preparatori e, soprattutto, del programma iconografico e decorativo delle sale che aveva coinvolto ben trenta artisti.

Il contributo pittorico sironiano, ad affresco su superficie muraria, si risolse con l’opera monumentale intitolata Il lavoro (1933), che può essere letta come il risultato di un percorso stilistico e tematico ‘progressivamente in espansione’ e iniziato già alla fine degli anni Venti. Del 1928 era l’Uomo con vanga, seguito l’anno successivo dai Costruttori e, nel 1932, dalla gigantografica vetrata messa in opera presso lo scalone monumentale dell’allora Ministero delle Corporazioni (oggi dello Sviluppo Economico), intitolata La Carta del Lavoro. Comune a questi lavori che anticipavano la pittura murale della Triennale, era la presenza costante di uomini impegnati in attività quotidiane, finalizzate allo sviluppo e miglioramento di una situazione personale e, su più vasta scala, sociale e collettiva. Il lavoro (1933), perciò, raccolse queste passate suggestioni, componendole coerentemente sino alla creazione di una scena corale. Risultato di questi ripensamenti fu una città senza tempo, al limitare tra un passato remoto e un futuro già superato, dove architetture antiche, simbologie pagane e cristiane, scenari industriali à la Metropolis (il film di Fritz Lang del 1927) si affastellavano attorno a personaggi ‘in azione’. Il lavoro, in epoca fascista investito da un valore morale molto forte, diventava così il motore di una città altrimenti morta, deserta. È interessante notare come, anche in senso politico opposto, queste stesse tematiche rivestissero un ruolo significativo nella società del tempo. Nel 1931, il muralista messicano Diego Rivera portò a compimento una rappresentazione analoga presso il San Francisco Art Institute: The Making of a Fresco Showing the Building of a City mostrava una città in fieri e brulicante, costruita sui valori collettivi di una società che cooperava per raggiungere i propri obiettivi.

Entrambi, Rivera e Sironi, da prospettive politiche dicotomiche giocarono su un evidente monumentalismo delle proporzioni, delle figure e della composizione. Tuttavia, quest’ultimo si mostrò ancora una volta vicino a stilemi capaci di richiamare la tradizione italiana, vicina e lontana – dall’antichità romana e cristiana, passando attraverso il primitivismo per arrivare all’autoreferenzialità, rintracciabile in alcuni ‘tipi’ ricorrenti nella produzione sironiana. Il tutto per creare un messaggio diretto al pubblico in un dialogo che fosse a doppio senso. Ugo Ojetti, dopo aver visitato la manifestazione, colse le peculiarità stilistiche che contribuirono a fare di Sironi un punto di riferimento per la società del Ventennio. 'Il largo respiro, la solenne semplicità del comporre, la riposata potenza delle figure, la parsimonia dei gesti, la delicatezza dei toni, nei suoi prediletti colori rosa viola, bruno, verde e mattone fanno di lui uno dei pittori più rappresentativi dell’arte d’oggi' (Ojetti, come riportato in Fagone 2001, 43).

Bibliografia

Braun, Emily. 2003. Mario Sironi. Arte e politica in Italia sotto il fascismo. Torino: Bollati Boringhieri.

Fagone, Vittorio. 2001. L’arte all’ordine del giorno. Figure e idee in Italia da Carrà a Birolli. Milano: Feltrinelli.

Gian Ferrari, Claudia. 1987. Mario Sironi, opere scelte. Le Opere e i Giorni. Milano: Galleria Claudia Gian Ferrari.

Longari, Elisabetta. 2007. Sironi e la V Triennale di Milano. Nuoro: Ilisso.

Silvia Colombo