Gabriele D’Annunzio, La figlia di Iorio, (1904)
La figlia di Iorio è una “tragedia pastorale” in tre atti composta e rappresentata nel 1904, ma di enorme rilevanza per la drammaturgia e la mitologia fasciste, soprattutto grazie alla rappresentazione del 1927 al Vittoriale degli italiani, con direzione del drammaturgo “fascistissimo” e amico personale del Duce Giovacchino Forzano. L’opera è ambientata in Abruzzo, terra natale di D’Annunzio, in una sorta di Arcadia atemporale. I preparativi per le nozze di Aligi, pastore, vengono interrotti dall’irruzione di Mila di Codro, figlia del mago Iorio, sospettata di stregoneria, che cerca rifugio dalle molestie di un gruppo di mietitori ubriachi. Mila viene respinta dalla famiglia di Aligi, il quale invece la difende e con lei fugge in montagna, dove i due si innamorano. Lazaro di Roio, padre di Aligi, uomo brutale e violento, intende rivendicare il possesso di Mila. Aligi gli si oppone con forza per difendere Mila e lo uccide; viene quindi condannato a morte dalla comunità per parricidio. Mila si accusa del parricidio per salvarlo e viene condannata al rogo per stregoneria. Lo stesso Aligi è indotto a crederla una strega e ad inveire contro di lei, mentre soltanto la sorella di Aligi, Ornella, comprende la sua innocenza e il suo sacrificio.
La sacralizzazione delle politiche totalitarie dell’Uomo nuovo attraverso le arti
La fabbricazione della realtà dell’Uomo nuovo tramite la creazione di mitologie nazionali
Il monumentalismo, ovvero la visualizzazione di soggettività e oggettività
La rappresentazione dell’11 settembre del 1927 de La figlia di Iorio di Gabriele d’Annunzio, organizzato all’interno del Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, residenza del Vate, aveva chiari intenti celebrativi e commemorativi: l’11 settembre era l’anniversario della marcia su Ronchi nell’impresa di Fiume. Questo allestimento teatrale può essere ricondotto a due progetti che conversero: da un lato il progetto di d’Annunzio, concepito già a partire dal 1921, di trasformare il parco del Vittoriale in un santuario dedicato alla patria e alla virtù dell’eroismo. La sistemazione monumentale del parco, porgettata in collaborazione con l’architetto Maroni, prevedeva un itinerario solenne scandito dalle reliquie belliche dannunziane, che partecipavano alla creazione di una mitologia fascista fondata sulla memoria della guerra e sulla sollecitazione visiva. Tale progetto approdò quasi naturalmente nella rappresentazione della Figlia di Iorio che avvenne in questo spazio (davanti alla fontana del Delfino). Parallelamente, l’allestimento di quest’opera è legato alla creazione dell’Istituto Nazionale per le Rappresentazioni dei Drammi di Gabriele d’Annunzio del 1926, all’interno del quale Giovacchino Forzano era inquadrato come regista di regime.
La “tragedia pastorale” La figlia di Iorio, tragedia mitica e rituale, ispirata al modelli della tragedia classica di Eschilo e di Sofocle, è uno dei vertici della drammaturgia di d’Annunzio e del teatro italiano di poesia. D’Annunzio ambienta La figlia di Iorio nella sua terra natale, l’Abruzzo. L’opera assume l’aspetto di una rievocazione di un mondo in cui il sacro e il profano si confondono, e in cui agiscono forze archetipiche elementari e profonde. D’Annunzio ricorre a una lingua dal registro alto e a un lessico aulico. L’opera riscosse un grande successo nel 1904 quando fu rappresentata a Milano e in molti altri teatri d’Italia dalla Compagnia Talli-Gramatica-Calabresi, ma ebbe grande fortuna anche in epoca fascista. Tra le ragioni del suo successo va individuato il fatto di aspirare ad essere un dramma 'nazionale', che voleva rappresentare un primo passo verso la fondazione di un teatro nazionale. I valori 'autoctoni' della 'italica stirpe' vengono affidati a un popolo di contadini/pastori, fiero della propria identità, vissuto nel distacco dai processi di modernizzazione: in quell’Abruzzo primitivo, sognatore e violento si poteva scorgere la matrice, in un’ottica nazional-popolare, di un sentimento nazionale italiano.
Nell’allestimento del 1927 d’Annunzio si fece entusiasta promotore di un significativo aggiornamento della pratica teatrale. La messinscena si fondava sull’idea di un teatro di massa, che sollecitava la partecipazione, sia come pubblico che come figuranti, di una folla variegata per estrazione sociale, ma coesa dal punto di vista della provenienza (i paesi del Garda, vicino al Vittoriale). Il coinvolgimento delle comunità locali, sia come pubblico che come figuranti, fu totale ed entusiasta, e la rappresentazione fu un evento memorabile. Il 'palcoscenico' all’aperto, ricavato dagli elementi naturali del parco del Vittoriale, di per sé offriva un’esperienza completamente innovativa e coinvolgente agli spettatori, che andava a sommarsi alla ritualità mitica e celebrativa creata dal percorso delle 'reliquie' belliche. Fondamentale fu anche il contributo della regia di Forzano, incisiva e spettacolare, pensata per una teatralità di regime; D’Annunzio gli affidò il compito di 'ridurr[e] a semplicità essenziale gli allestimenti' (Isgrò 2017, 42).
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Laura Pennacchietti